
Questa è una classifica alternativa. Che si propone come punto di vista “altro” rispetto a ciò che la critica rock ha decretato da tempo, senza avere l’immodestia di andarvi contro. È solo una visione personale basata sulle riflessioni che leggerete disco dopo disco. Riflessioni che non si soffermano solo sulla qualità e il successo della musica dei Pink Floyd ma anche su quanta creatività e forza dirompente (anche a livello di messaggi veicolati dalle liriche) vi fosse contenuta.
Una classifica del resto è sempre figlia dei gusti di chi scrive, anche quando si cerca di essere più obiettivi possibile. E in questo caso chi scrive è uno che ama visceralmente questa band, che da sempre sogna sulle ali della chitarra di David Gilmour e sui morbidi tappeti di organo di Richard Wright, che si commuove ogni volta che ascolta le quattro note di Shine on You, Crazy Diamond e che ha le allucinazioni quando parte Astronomy Domine. Chi scrive però non ha mai sottovalutato la brace che sta sotto la superficie, quell’energia compressa che arde e non si spegne mai, fatta di alienazione, denuncia sociale, pazzia, rabbia… C’è nei Pink Floyd un qualcosa che va al di là della musica, che a volte addirittura fa a pugni con essa.
Prendiamo The Dark Side Of The Moon o Wish You Were Here, due tra i più riusciti e celebrati album della band inglese. Sotto i ritmi quasi sempre pacati di Mason, sotto il placido tessuto sonoro che sa farsi intenso ma più spesso indugia nella sospensione, nell’atmosfera… Tra le pieghe di questo sound c’è spesso nostalgia, c’è soprattutto il continuo farsi avanti di un ricordo, di una perdita. I Pink Floyd continueranno nel tempo a scontare una colpa: quella di avere abbandonato colui che aveva donato alla band una visione, colui che aveva piantato i semi di un percorso poi egregiamente sviluppato nel corso degli anni. L’uomo che un giorno si era deciso di non passare a prendere, che si era lasciato ad aspettare sotto casa tirando dritto. Perché la macchina doveva andare avanti a qualsiasi costo, l’ambizione era alle stelle, non c’era tempo di attendere chi era più fragile, chi da questa macchina cominciava a essere stritolato.
Per Roger Waters questo rammarico si farà vivo e pulsante lungo tutta la sua carriera con i Floyd, insieme al dolore per la perdita del padre mai conosciuto. Tutto ciò sarà utile a partorire un capolavoro dietro l’altro, figli di quel fuoco, di quello smarrimento, di quella nostalgia e di quel senso di colpa. Non solo, anche di una incessante volontà di capire cosa si nasconde dietro le pieghe della follia, di trovare un riscatto alle brutture del mondo, di elevare gli esseri umani tramite una critica sociale sempre attiva e illuminante. La musica dei Pink Floyd nasconde da sempre una strisciante sensazione di disagio che personalmente me li fa amare ancora di più. Un mix tra languore e rabbia che ha determinato la loro grandezza e che ha ispirato questa classifica.
15: A Momentary Lapse Of Reason (1987)

Questo non è un disco dei Pink Floyd, è solo un album solista di David Gilmour con Mason comprimario e Wright a fare timidamente capolino. Del resto il povero David bisogna capirlo, il dittatore Waters lo ha tenuto in scacco per anni, uno poi che non sapeva nemmeno suonare il basso, al quale toccava fargli le parti in studio, che era anche un po’ stonato e per fortuna che c’era lui con la sua voce ferma e sognante. Una volta toltoselo di torno ecco che David fa quello che ha sempre desiderato: tornare alle atmosfere di Moon e Wish, con giusto un po’ di tecnologia ’80 in più. Peccato che mediamente le canzoni non siano proprio indimenticabili.
14: The Divison Bell (1994)

Con The Division Bell le cose vanno leggermente meglio. I brani sono piacevoli e c’è un’aria più “da gruppo” (Wright è stato re-inserito in pianta stabile) rispetto al precedente. Ciò che non torna di questo album è la sua atmosfera un po’ troppo perfettina e pulita, senza i guizzi che ci si aspetterebbe dai Pink Floyd. Canzoni con tutti gli elementi al posto giusto (vedi lo strumentale Marooned) che però lasciano la sensazione di stare ascoltando un gruppo che fa il verso a se stesso. The Division Bell è un disco al quale manca la passione, la cattiveria, lo slancio. Al quale manca Manca Roger Waters.
13: The Endless River (2014)

C’è qualcosa che questo disco postumo, pubblicato soprattutto per rendere omaggio al tristemente scomparso Richard Wright, possiede rispetto ai due precedenti. In questa musica quasi del tutto strumentale e poco più che improvvisata c’è di nuovo sincerità, voglia di sperimentare, di essere una vera band. Lunghe suites plananti ammantate dai suoni di un Wright in stato di grazia, con Mason a portare il suo imperterrito 4/4 e Gilmour a farci volare. Nulla di trascendentale ma un lavoro che pacifica com questa fase floydiana. Unica pecca una terribile Louder Than Words.
12: Obscured By Clouds (1972)

Col senno di poi questa colonna sonora (del tribale La vallée di Barbet Schroeder) sembra anticipare alcuni momenti del successivo The Dark Side Of The Moon e addirittura alcune atmosfere del dopo-Waters. Per il resto l’album si sviluppa tra strumentali di pregio a base di torbida elettronica ’70 (come la title track, Mudmen e Absolutely Curtains) alternati a una serie di canzoni rock un po’ scialbe, con il picco luminoso di Burning Bridges che prova a riscattare il tutto.
11: Music From The Film More (1969)

Altra colonna sonora, sempre per una pellicola di Barbet Schroeder (in Italia More – Di più, ancora di più). Diversamente da Obscured By Clouds qui ancora non ci sono coltri di sintetizzatori bensì spaccati dissonanti e cubisti che anticipano l’esperienza di Ummagumma. Il tutto insieme a canzoni che spesso e volentieri spaccano. Anche i timpani, come l’inaspettato hard rock di The Nile Song. Poi vere perle di dolcezza acid folk firmate da Waters come Green is the colour (con un Gilmour realmente angelico alla voce) e soprattutto la perfezione melodica di Cymbaline.
10: A Saucerful Of Secrets (1968)

Rimasti orfani di Syd Barrett (che pure fa in tempo a partecipare ad alcuni brani) ai Floyd tocca reinventarsi. Con il nuovo arrivato David Gilmour tirano fuori un disco che si muove tra il ripescaggio di atmosfere legate al recente passato (vedi le zollette lisergiche firmate Wright Remember a Day e See-Saw – in quest’ultima c’è già tutto il dream pop – e il definitivo lascito barrettiano di Jugband Blues) mixati con accenni di futuro. Nella drogata title track poi assistiamo al tipico esempio di suite floydiana: dalla stasi al trionfo passando per il caos. Infine un paio di stupendi ibridi come Set the Controls for the Heart of the Sun e Let There Be More Light.
9: Atom Heart Mother (1970)

1970: ci sono i Nice, i Moody Blues, i Procol Harum, i Deep Purple… Tutti alle prese con dischi che impiegano un’orchestra nel tentativo di mettere insieme classica e rock. La moda è quella e i Pink Floyd hanno voglia di dire la loro. Detto fatto, con l’aiuto di Ron Geesin che arrangia il tutto, ecco scodellata la suite di Atom Heart Mother, 20 e passa minuti di esaltante florilegio tra sinfonia e psichedelia che assicura un bel viaggione agli adepti floydiani. Sul lato B poi ci piazzano una serie di brani che spaziano dal folk al rumorismo, forti ma non c’entrano quasi nulla con la suite. E alla fine dei conti forse è questo il bello del disco.
8: The Wall (1979)

Qui Waters diventa dittatore maximo, lasciando quel giusto spazietto a Gilmour per infilarci alcune belle idee compositive, tra le migliori del chitarrista. Il risultato è una sequenza teatral-musicale che racconta la storia di un disadattato nel quale il bassista si rispecchia in pieno. A questo punto il suo io è triplicato: è Roger ma è anche Pink che è anche un po’ Syd. Arriverà vicino a un esaurimento e a farne le spese saranno i suoi compari che verrano vessati a non finire. Ma valeva la pena di soffrire: The Wall è tutto il sangue che i Floyd potevano versare in un’ora e mezza di sublime delirio.
7: The Dark Side Of The Moon (1973)

È uno dei dischi più celebrati della storia, e se lo merita. Poi è bello pensare che robe del genere abbiano stravenduto e rimarranno nella storia mentre cose che oggi sono spacciate come il top saranno dimenticate tra un mese. Perché The Dark Side Of The Moon piace tanto? Perché anzitutto è musica ottima per fare l’amore: è carezzevole, languida, melodica, sostenuta quando necessita. Con dieci pezzi (a formare una suite che scorre lungo tutto l’album) semplicemente perfetti, di una perfezione che non teme lo scorrere del tempo. E in tutto questo ha un cuore pulsante di follia.
6: Wish you were here (1975)

Il difficile seguito del bestseller precedente, fatto di musiche ampie e dilatate, canzoni da suonare in spiaggia, bei rockacci e anfratti inquietanti. I i sensi di colpa di Waters cominciano a venire a galla prepotentemente. Ora i Pink Floyd sono delle superstar multimilionarie, ciò anche grazie alla genialità di Syd che ha dato vita alla band e indicato la via. Per espiare le sue colpe il bassista scrive di assenze, di rimpianti, di cose che potevano essere e non sono state. Il tutto mentre il gruppo viene sempre più risucchiato nelle grinfie del business, della macchina stritola-ossa che non lascia scampo. Qui Roger ha appena cominciato a dar di matto, sarà una lunga scalata fino al taglio finale.
5: The Final Cut (1982)

Ridotti al lumicino psicologico Mason e Gilmour e dato il benservito a Wright adesso Waters è libero di spadroneggiare dando alle stampe un lavoro che può essere considerato un album solista suonato da ciò che resta dei Pink Floyd. E va benissimo, in quel periodo Roger ha tantissime cose da dire e le dice. In certi casi la democrazia nelle band può anche andarsene a quel paese. The Final Cut è un disco di un dolore e di un’intensità unici, di brani che sono dolci coltellate, di tutto ciò che un uomo può esprimere a riguardo della morte del padre, dell’assenza, del music business, della politica, della paranoia, della solitudine… In pratica la summa di ciò che Waters ha espresso nei testi floydiani.
4: Ummagumma (1969)

C’e stato un periodo, tra il 1968 e il 1973, nel quale i Pink Floyd non erano “quelli di…” (Barrett, Waters, Gilmour) ma quattro teste che lavoravano per lo stesso obbiettivo, in maniera più o meno armonica e creativa. Anche quando lo facevano separatamente. Ummagumma è il trip per eccellenza dei Floyd, una serie di suites condotte dai singoli che fantasticano tra musica contemporanea e prog ante litteram. Ma la meraviglia nella meraviglia è la sezione live, con versioni perfette di alcuni classiconi dell’epoca e il picco di A Saucerful Of Secrets, rivista e potenziata fino a un’intensità quasi insopportabile.
3: Meddle (1971)

Passato un anno ci risiamo col problema di Atom Heart Mother. Ci sono canzoni che più eterogenee non si può a riempire una facciata. Brani che si muovono tra la cavalcata psichedelica, la ballata folk, il jazzettino e il blues canino. Poi c’è l’altra facciata, nella quale viene calata come oro liquido la perfezione, la più bella cosa che i Pink Floyd hanno partorito nella loro esistenza: Echoes, e oltre l’infinito. La traversata spaziale per eccellenza dei Floyd, il perfetto connubio delle quattro menti, delle voci di Gilmour e Wright che vorresti baciarli, dei soli di chitarra da urlo, della sospensione nel vento cosmico e infine della rinascita. Con Echoes i Pink Floyd diventano assoluti.
2: Animals (1977)

Forse il disco più sottovalutato dei nostri, ma anche il più potente. Animals non è carezzevole, non è buono, è un album che trasuda cattiveria in ogni nota. È la versione punk dei Floyd, è denuncia sociale, pugni in faccia, sporcizia e bastonate. L’umanità ridotta a cani, pecore e porci, una delle più incisive invettive contro la povertà intellettuale del genere umano pronto a farsi sopraffare dal più scaltro. E la musica segue questo istinto macilento: cruda, acida (non in senso psichedelico), stridente, mai ruffiana nei confronti di chi ascolta ma pronta a donare stimoli, a diventare arma di rivoluzione. Roger è più incazzato che mai, gli altri fanno l’impossibile per assecondarlo e ci riescono alla grande. Il tutto finirà con uno sputo e un muro.
1: The Piper At The Gates Of Dawn (1967)

Non si può prescindere dal disco grazie al quale tutto è iniziato, nel quale c’è già, in nuce, tutta la poetica e l’inventiva dell’arte floydiana. Nel quale la pop song dolcemente lisergica si alterna alle sfuriate cariche di effetti sonori, ai viaggi intergalattici, al feticismo, agli gnomi, ai gatti diabolici e all’I-Ching. The Piper At The Gates Of Dawn è il genio di Syd Barrett all’ennesima potenza, ma è pure l’estro di Waters, Wright e Mason: si ascolti l’organo multicolour di Richard e un Nick raramente così fantasioso. Undici canzoni belle come Emily persa nel bosco al tramonto, una più labirintica e fascinosa dell’altra, un Stg. Pepper in volo verso l’assoluto.
Amazing writings, your words reberberate with the music I love.
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