
Iacopo Incani non è uno che si accontenta. Nel 2015 con “Die”, il secondo parto del suo progetto Iosonouncane, ha raggiunto una bella fetta di pubblico con una musica tutt’altro che leggera, fatta di richiami al Battisti più introspettivo, al prog, a certa world music, all’elettronica… Un bel calderone che gli ha permesso di entrare nel novero degli artisti italiani da tenere d’occhio. Perché questo sia successo mentre tanti altri che propongono cose “difficili” restino confinati alla nicchia della nicchia è solo questione di talento. Incani ci sa fare e le sue cose “difficili” arrivano dritte al cuore. Questo è un bel segno, vuole dire che persino ai nostri giorni certa musica, se confezionata ad arte, può arrivare alle orecchie di un pubblico allargato.Quindi lo abbiamo tenuto d’occhio, e per un bel po’, 6 anni per l’esattezza, questo è il lasso di tempo che separa Die da “Ira”, pubblicato su doppio cd o triplo vinile. Un mastodonte che “Tales From Topographic Ocean” al confronto sembra un disco di Orietta Berti. Ma ben venga, Incani dimostra di avere coraggio da vendere. Non credo gli sarebbe costata molta fatica tirare fuori un “Die” parte seconda, trovata la formula di successo, per quanto peculiare, fa parte delle basilari regole del mercato ripeterla all’estremo. Invece no, il Nostro si è messo di buzzo buono e ha concepito un qualcosa di inaspettato, in grado di lasciare un segno indelebile.
Quanto tempo è passato dall’ultima pietra miliare italiana? A mia memoria l’ultima è stata “La Voce Del Padrone”. O sbaglio? Per pietra miliare intendo uno di quei dischi destinati a non essere mai dimenticati, le cui canzoni echeggiano nell’aria a distanza di decenni. Che ha fatto breccia nei cuori del pubblico e ha contribuito a evolvere l’arte musicale. Vogliamo negare che il best seller di Franco Battiato abbia ridisegnato la musica pop nel nostro paese? Ecco, dopo 40 anni Iacopo Incani sembra avere inciso un disco in grado di diventare un classico. In maniera diversa da “La Voce del Padrone”, chiaramente. Ira infatti non contiene facili melodie, tra 40 anni difficilmente canticchieremo Prison o Sangre e ci vorrà un miracolo perché arrivi a vendere più di un milione di copie. Ma se puntiamo il dito sull’importanza dell’opera le cose cambiano. Ira si candida a essere qualcosa in più che un semplice lavoro discografico ed esce in un momento in cui la musica tutt’altro che accomodante che contiene rischia di portare un vento nuovo di zecca all’interno dell’asfittico panorama italiano che oramai ha fatto indigestione di trap e becero it-pop. Magari non sarà il nuovo “La Voce Del Padrone” ma un “Kid A/Amensiac” nostrano sì. In fondo l’afflato sperimental-comunicativo di “Ira” è esattamente lo stesso della doppietta made in Radiohead.
Quando è uscito ho ascoltato “Ira” durante un viaggio in treno, mentre il giorno e notte si confondevano. Prima di iniziare ho pensato di assimilare le quasi 2 ore di musica in diverse tranche. Non volevo farmi sfuggire dei particolari per la fretta, per la curiosità che da molte settimane premeva, su me e su molti altri che non ce la facevano più: volevano capire di che caspita fosse fatto questo attesissimo “Ira”. A mia memoria non succedeva da anni che per un album italiano ci fosse tanta aspettativa. Ero quindi piuttosto prevenuto. In quei giorni mi è infatti sembrato che lo spirito critico di molti andasse a farsi benedire: lodi sperticate, elogi, recensioni da paura, capolavoro, genio, indispensabile, disco dell’anno… Tanta bontà mi insospettisce sempre.
Con tutto questo carico di sospetti ho iniziato ad ascoltare e per 2 ore non ho potuto levarmi le cuffie. Il paesaggio fuori dal finestrino mutava mentre Ira mi catturava in un’ipnosi irresistibile. Mentre i brani scorrevano la mente tornava spesso all’immagine di copertina: un uomo nudo e sfocato, come se la sua figura scaturisse dalle profondità di un sogno. Nelle 2 ore di flusso il suono è esattamente quello della copertina, si manifesta lentamente come da un’altra dimensione. Mi viene da paragonarlo alla luce delle stelle che a noi arriva dopo secoli, quando gli astri sono già defunti. La musica di “Ira” è il riverbero di un ricordo, di un qualcosa estinto da moltissimo tempo. È musica surreale, sospesa, a volte melodica, altre percussiva, c’è tanto tribalismo ma anche quello è particolare, è più mentale che fisico, ha a che fare con l’accavallarsi di piani spettrali, quei tamburi giungono ovattati da altre ere, da altre realtà. Anche le voci, un melange di idiomi spesso inintelligibili che si confondono col tessuto musicale, proprio come in “Anima Latina”. E il disco di Battisti torna qua e la a farsi sentire, nelle parti etniche, in certe melodie corali… Poi echi di Dead Can Dance, Robert Wyatt, Thom Yorke… Ma alla fine è il solito giochino di trovare similitudini a tutti i costi che qui non funziona, “Ira” è originale 100% anche per come mette insieme le influenze. Mi spiace solo che quel cantato così perduto nei reami onirici non sia in italiano, secondo me ci avrebbe guadagnato, lo avrebbe reso ancora di più la “nostra” pietra miliare.
Così 2 ore di musica sono fluite e io con loro. Alla fine un solo pensiero: mi auguro che “Ira” sia amato e capito profondamente per quello che è: un disco ammaliante e rivoluzionario. Soprattutto perché ha il coraggio di osare in un momento in cui questa parola se la sono dimenticata in molti. Non che nell’underground italiano non ci siano artisti che osano, tutt’altro, ma qui siamo su un altro livello, la sperimentazione messa in atto da Iacopo raggiunge quel miracoloso punto in cui, potenzialmente, sarebbe in grado di arrivare al cuore di chiunque. Perché parla un linguaggio che è parte del nostro profondo essere, entra in risonanza con qualcosa che tutti celiamo nel nostro inconscio, qualcosa di antico e archetipico. Per questo Ira non va preso come prodotto che è fico perché ne parlano tutti alla grande, una di quelle cose che non capisci il perché ma tutti dicono che è meraviglioso e non puoi non ascoltarla e fartela piacere. No, assolutamente no! Isonouncane non deve diventare un nome che fa hype e poi tutti al concerto a parlar dei cazzi propri e a tracannar birra mentre lui suona perché l’importante è esserci, non partecipare. No. “Ira” richiede vero amore da parte vostra, potete affogare nel suo flusso ma restate con le antenne drizzate, penetratelo, siate consapevoli di cosa è quella musica, di cosa significhi oggi fare un disco del genere, che è veramente un atto politico contro la demenza imperante. Fatelo vostro e lasciate che vi cambi dall’interno e che ci aiuti e costruire un mondo nuovo dopo l’inferno nel quale siamo imprigionati.